sabato 5 novembre 2016

TERREMOTO_NORCIA_OTTOBRE 2016

Tempo fa scrissi un articolo riguardante in particolare il Campanile della Basilica di S. Pietro in Perugia richiamando nelle premesse una breve storia di torri e campanili. Il titolo e relativo sottotitolo erano:
Il Campanile di S. Pietro 
(L’angelo e il diavolo)
L'articolo si concludeva per l'appunto con quello della Chiesa di S. Salvatore nella frazione di Campi, Comune di Norcia. Lo richiamo oggi alla memoria perché se ne conservi la memoria.

Campanile della Basilica di S. Pietro in Perugia (Fig.6)
Storie di torri e/o campanili

Campanile, parola di origine italiana ma di uso internazionale per identificare un manufatto a forma di torre terminante con una cuspide a punta verso il cielo: una sfida ? o … un’indicazione? 
Si potrebbe dire il reciproco di un pozzo. Il pozzo  materiale “a togliere”, il campanile “a mettere”. Se si confronta il campanile di S. Pietro con il pozzo della Sapienza, all’altro capo della città. L’analisi strutturale dei due manufatti mostra analogie sorprendenti: fusto poligonale, coronamento di beccatelli, copertura emergente e leggera, marchingegno oscillante nella parte alta …  . Con la differenza che uno è convesso e l’altro concavo, l’uno s’innalza e l’altro sprofonda. Il pozzo è acqua e terra, il campanile è la pietra e il cielo. L’acqua chiama le folgori, simbolo del fuoco. Due opposti. Un po’ come un diavolo e un angelo, l’uno dell’altro custode e prigioniero. Fabbriche, dunque, entrambe, di simbologia forte, si direbbero quasi estreme, dotate di drammaticità. Costruzioni che nessun Maestro ha mai affrontato senza timore. 
Pensate alle vicissitudini del campanile di S. Marco dove per l’imperizia di maestranze che praticando una breccia nel muro, profonda per oltre due terzi dello spessore, laddove era stato eseguito un consolidamento già nel 1745 per i danni causati da un fulmine, ne determinarono il crollo (14 Luglio 1902). 
E a quelle ancor più tragiche della Torre di Pisa, iniziata nel 1173 e completata nel 1360, improntate al conflitto senza fine con la portanza del substrato di fondazione. 
O, ancora, al campanile di Burano (fig. 1) col suo contorno di case basse che si esibiscono nei colori della festa, mentre si ingaggia una folle corsa ad impedirne il crollo con l’aiuto di pali-tiranti nascosti nelle mura che lo tengono in equilibrio.

Fig. 1
Nessuno corre invece per la torre di Vernazzano, Tuoro sul Trasimeno (fig. 2), e lenta è la sua agonia. Soltanto pietosi tiranti d’edera, spontaneamente, cercano invano di mantenerlo in vita.

Fig. 2
Al contrario, minato per ben due volte perché rappresentava un pericolo per la pubblica incolumità, dopo il sisma del 1976 in Friuli, il campanile di Osoppo cadde, ma cadde intero.
Bizzarro, curioso, fortunato, unico il campanile di S. Spirito dei Chiusini a Piano D’Arta (fig. 3). A vederlo lo diresti pronto a cadere solo con un soffio; ma e lì …. Neanche i terremoti!

Fig. 3


Fu torre, campanile, minareto e di nuovo campanile, quello della Chiesa del Carmine a Marsala (fig. 4).

Fig. 4
Fu torre e poi, forse imposti, ebbe piantati sulla cima gli ulivi e due campane. E’ un giardino sospeso in aria la sommità della torre (fig. 5) affiancata alla Porta Consolare di Spello.

Fig. 5
 Ce n’è poi uno che fu solo disegnato, giace a terra inciso a punta di scalpello sulla pietra della pavimentazione, con linee diritte e curve, perfette e in cima una bandiera al vento. Il fusto è fuori e ancora attende. Documento di pietra, testimonianza certa del progetto. La Chiesa è S. Salvatore in Campi di Norcia.

In tutti questi esempi c’è qualcosa che richiama la storia del Campanile di S. Pietro (fig. 6).

giovedì 6 ottobre 2016

LA FAVOLA DI COLA PESCE

COLA PESCE E IL PONTE SULLO STRETTO

Gianni Cruciani


C’era una volta un Re. Era il Re di Messina. Tra i suoi sudditi ne aveva uno dotato di una particolare abilità. In pratica riusciva a perlustrare in lungo e in largo, e sopratutto a qualsiasi profondità il mare. Il suo nome era Cola Pesce.
Qualcuno di voi ricorda questa antica favola siciliana su Nicola Pesce? Io spero di sì. Comunque ne riassumo e di molto il fatto che gli capitò per esaudire le volontà del suo Re. 
Il Re assolutamente voleva sapere essenzialmente due cose:
- su cosa si reggeva la città di Messina?
- quanto era profondo il mare al di sotto del Faro?

Al primo quesito Cola Pesce risponde che Messina è edificata sopra uno scoglio e che lo scoglio è sostenuto da tre colonne di cui una è rotta e un’altra è incrinata. A questo punto il Re si sarebbe dovuto preoccupare poiché le sorti della città si basano sulla resistenza di una sola colonna.
Al secondo quesito Cola Pesce non può rispondere perché dopo tre tentativi di immersione non riesce, per motivi diversi, a raggiungere il fondo.

Il Re di Messina, non si capisce il motivo di questa sua curiosità, insiste fino al punto di ricattare il povero Cola Pesce buttando in mare la sua preziosissima corona ordinandogli di recuperarla tuffandosi dall’alto della torre del Faro. 
Cola Pesce si tuffa con delle lenticchie strette nel pugno di una mano. Aveva detto: se resterò vivo, verrò su io, altrimenti vedrete riemergere le lenticchie.
Una prima riflessione mi fa pensare che Cola Pesce avendo capito il fine recondito del Re aveva trovato un modo simbolico di rispondere. Facendo riemergere le lenticchie restituisce al Re la ricchezza dei poveri, ben più importante di quella corona piena di pietre preziose ormai in fondo al mare. E poi! Se il Re era veramente deciso a costruire un ponte sullo stretto, lui non voleva certo mettere a repentaglio il destino della Sicilia. Infatti Cola Pesce, ci crediate o no è ancora vivo, e responsabilmente continua a perlustrare gli scogli di Pachino, Peloro e Lilibeo.

Ci crediate o no, irresponsabilmente qualcuno pensa ancora al ponte. Ma anche questa è una favola.

Francesco E. K. Ventura
autore del divertente racconto in uno dei dialetti siciliani
"L'urtimu re d'Artapansa"

lunedì 21 dicembre 2015

SIRACUSA_ il seppellimento di S. Lucia



Sulle orme di Caravaggio


A Siracusa vi si arriva comodamente con  un Trans Euro Notte partendo la sera da Roma. Infatti all'alba già si attraversa lo stretto ed è piacevole godersi dal ponte della nave prima la costa siciliana, la meta, poi quella calabra alle spalle. A quel punto l'arancino è stato mangiato. Se mi chiedono quante volte ho attraversato lo stretto di Messina potrei sempre rispondere "tante quante gli arancini che ho mangiato". Quelli naturalmente del traghetto, cotti sempre nello stesso olio come mi piace pensare, altrimenti perché saprei distinguerli così bene dagli altri? L'arancino è il primo sapore della Sicilia, il mare e l'aria i primi odori. E poi se qualcuno mi chiede del ponte, quello che ogni volta ti propongono per risparmiare tempo, gli dirò di stare attenti al ponte e a chi te lo propone, quanto al guadagno . . . lasciamo perdere. 
Da un ponte si può  sentire il "canto delle sirene"?
Il treno riparte. Messina, Taormina, l'Etna ( fuma? non fuma? si . . . fuma! ma no, forse è una nuvola ), Acireale, Catania, Augusta ed eccoci, ultima fermata Siracusa. Sono le nove e trenta, il sole è già alto, la giornata è splendida si va verso Ortigia a cercare alloggio. Albergo G. B. è simpatico e modesto, vi raccomando la stanza n.8.
Il tempo di sistemare i bagagli e via per la prima colazione al Caffé dell'angolo Riva della Posta. E' ridicola quella Banca al posto del Caffé, ci resto male. Fare piu' di mille chilometri per una prima colazione può sembrare altrettanto ridicolo? Forse, eppure molte volte ho pensato di andare a Genova nel ricordo di un cornetto alla nocciola. Mai la nostalgia di un'operazione bancaria a Siena o tanto meno nella sua Agenzia di Siracusa.
La colazione, ottima, si fa lo stesso, cannolo ripieno con una crema di ricotta, leggero gusto di limone, dentro una pasta morbida. 
Sulla piazza c'è una bella luce, il chioschetto delle bibite è al suo posto. Per fortuna. E' ora di raggiungere Palazzo Bellomo, il Nostro mi aspetta. Questo era il programma.
   Il Tempio di Apollo, Piazza Archimede, Via Roma, poi la prima traversa a destra, Via Minerva. Lo sguardo si concentra sulla mia sinistra, tracce monumentali di un tempio greco. La serie di colonne su stilobate a tre gradini, la trabeazione ... gli inter-co-lum-ni oc-clu-si e i mer-li  ... sopra  ... il fregio. Sfregio?
   Si, è da via della Minerva che si deve arrivare sulla Piazza, questo è il modo, sempre sulla sinistra, con la coda dell'occhio sentirete una massa di pietra incombente e se vi allontanate girandovi per vederla . . . si trasforma in architettura barocca. Il tempio greco è scomparso.
   La Piazza del Duomo è uno spazio incantevole, con quella linea curva su cui si dispongono palazzi, come a farsi intorno, spettatori di pietra, al tempio, alla chiesa, alla moschea. S. Lucia in fondo, un pò in disparte a spezzare la curva, un ricamo su pietra bianca, indorata dai raggi del sole.
- E la fontana? 
- La fontana non si è  potuta fare, meno male. Avrebbe attirato tutta su di sé l'attenzione senza un motivo, senza una storia.
Il Palazzo del Senato d'angolo su via Minerva, affiancato al Duomo, non disturba e lì, c'è e non c'e. Anche la lucertola sarà lì, ma non si vede.
- Anche quì lucertole?
- Si, anche qui. E' il soprannome dell'architetto spagnolo Giovanni Vermexio. Lui come il Serpotta, scultore palermitano, firmava le sue opere col piccolo rettile.

   Si scende per via Picherali, di buona andatura, un occhiata dall'alto alla Fonte Aretusa. In mezzo ai papiri le anatre si rincorrono, si beccano buttano giu' la testa dentro l'acqua e per dispetto vi mostrano il sedere. Una volta, sui bordi della fonte, si vedevano lavandaie fare il bucato, parlare, sparlare, gridare, cantare ... mostrare, non si diceva un gran bene di loro. Ma forse al Nostro comunque piacevano. Ho idea che presto ne vedrò una, immortalata sulla tela. Non vi dirò  quello che penso. Meglio aspettare e vedere quel quadro: . . . e per l'appunto eccoci, Via Capodieci, ancora pochi passi e sono a Palazzo Bellomo, sede della Galleria (regionale) d'Arte medievale e moderna. Non c'è fretta, ho quasi due ore di tempo prima della chiusura. Mi siedo al fresco nel cortile per un breve riposo, quindi visito la toilette: sono pronto.

martedì 17 marzo 2015

CORCIANO - Il Castello della Pieve del Vescovo (II^ parte)

. . . per 30 fiorini, 100 tordi e un calcinaio (1 giugno 1472)

Appunti per uno studio cronologico delle fasi costruttive e delle vicende storiche del complesso monumentale oggi denominato “Il Castello della Pieve del Vescovo” in Corciano dalle sue origini  sino alla fine del XVI° secolo.
Dal 1390
Riprendiamo ora il nostro discorso proprio da quel documento già citato, redatto dai priori di Perugia in data 26 ottobre 1390, in cui si nomina ser Pucciero “Retulani” castellano della struttura, affiancandogli undici soldati. Quindi dalla morte del Bontempi il castello viene utilizzato come presidio militare e forse in modo maldestro se, nei primi mesi del 1394, una quindicina di uomini provenienti da Capocavallo e Cenerente lo occupano. Non è dato conoscere la motivazione, certo è che il vescovo Agostino Cacciaguerri (1390-1404) non se ne interessa; al contrario la mediazione per la restituzione del fortilizio è condotta da Biordo Michelotti, Signore di Perugia (sino al 1398). 
Dei successivi vescovi Edoardo Michelotti (1404-1411) e Antonio Michelotti (1412-1434) non abbiamo notizie correlate all’uso della Pieve. 
Del resto in questo periodo vi è una grande confusione nel governo di Perugia così che, dopo la morte di Biordo Michelotti (1398), i Raspanti offrirono la signoria della Città a Gian Galeazzo Visconti,  morto nel 1402. Dal 1403 Perugia torna ad essere soggetta al papa Bonifacio IX finché Braccio da Montone non vi entrò vittorioso nel 1416. Durante la sua signoria non privilegiò nessuna delle varie fazioni. Solo alla sua morte nel 1424, i becherini  presero il sopravvento con l’appoggio del papa Martino V. 
Papa Eugenio IV ( 1431 - 1447), che gli succede, nomina Andrea Giovanni Baglioni (1435-1449) vescovo di Perugia, trovando in questi un ottimo collaboratore nell’opera di restaurazione morale delle comunità religiose. Il Baglioni infatti:
- provvede a sostituire i monaci cluniacensi dell’abbazia di S. Pietro con i Benedettini della Congregazione di S. Giustina di Padova; 
- contribuisce alle spese per la costruzione della chiesa cattedrale partecipando alla posa della prima pietra nel 1439; 
- fa realizzare la porta di accesso alla Chiesa della Pieve di S. Giovanni con due eleganti battenti lignei in cui fa scolpire il suo stemma nei riquadri superiori. 
Dopo mezzo secolo sembrerebbe che la dimora estiva riprenda vita ponendo fine all’uso militare della stessa.

Alla morte del vescovo Baglioni, papa Niccolò V nomina vescovo di Perugia Giacomo Vannucci (1449 – 1487), originario di Cortona, personaggio di notevole spessore politico, sociale, religioso, culturale e artistico. A lui prestano attenzione e fanno riferimento durante la sua vita di prelato (trentotto anni) cinque papi: Niccolò V, Callisto III, Pio II, Paolo II e Sisto IV.
E’ in questo periodo che si da un forte impulso alle attività agricole nei poderi  che appartengono alla Pieve. Lo testimoniano la costruzione di quattro casali all’esterno di essa, mentre all’interno fa eseguire una serie di lavori di restauro, di  ristrutturazione e forse di nuova costruzione.
Le opere di ristrutturazione riguardano l’innalzamento di un piano dell’antico palazzo vescovile, il completamento della chiesa così come oggi la vediamo e altri due piani al di sopra di questa. In particolare ne cura la decorazione del prospetto che dava sul primo cortile e di queste ne rimangono tracce leggibili. Cura altresì la decorazione degli ambienti interni con fregi affrescati di notevole qualità che sono stati messi in luce in occasione del consolidamento delle volte nelle tre stanze che si affacciano verso est. Così si è scoperto che la ristrutturazione successiva eseguita nella seconda metà del cinquecento ricorre all’ispessimento delle murature d’ambito, probabilmente per migliorarne l’efficienza statica, ma occultando preziose decorazioni, tenendo in debito conto la competenza artistica del Vannucci. Tra gli stemmi che si vedono a mezzo nei fregi compare l’albero dei Della Rovere, forse fatto eseguire in omaggio al pontefice Sisto IV che lo teneva in grande considerazione e fiducia (fig. 1). Un approfondimento su tutte queste decorazioni merita di essere condotto così come si reputa urgente un intervento per il loro restauro affinché non abbiano a subire danni irreparabili.

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fig. 1
Si pensa di assegnare all’azione di rinnovamento del Vannucci anche la costruzione del corpo di fabbrica che si addossa alle mura verso ovest che chiamiamo del Lupo. In alto, poco visibile, v’è infatti incastrato nel prospetto est lo stemma in pietra del Vannucci (fig. 2).   

Dal 1482 vi si trasferisce in sede stabile sia per tirarsi fuori dalle continue guerre tra le famiglie perugine a quel tempo, sia per esercitare un maggior controllo delle produzioni agricole.


martedì 10 marzo 2015

CORCIANO - Il Castello della Pieve del Vescovo (I^ parte)

FORSE L’ACQUA . . . oppure il FUOCO.

Appunti per uno studio cronologico delle fasi costruttive e delle vicende storiche del complesso monumentale oggi denominato “Il Castello della Pieve del Vescovo” in Corciano dalle sue origini  sino alla fine del XVI° secolo.

Nella stesura di questi appunti seguiremo due percorsi nel tempo. Il primo a ritroso dal 1390 alle origini, il secondo  a partire dal 1435, con il Vescovo Giovanni Baglioni, fino al 1553 con il Vescovo Fulvio della Corgna.
Perché parliamo di appunti? 
V’è stata occasione fin dall’anno 2001 di procedere alla realizzazione, per stralci esecutivi, di progetti finalizzati a restaurare il complesso  monumentale a cura della Scuola Edile di Perugia  che lo detiene in comodato d’uso. Ogni progetto certamente teneva conto delle esigenze formative per l’insegnamento dell’attività di restauro ma, allo stesso tempo, diventava l’occasione per approfondire la conoscenza storica dell’edificio indagando sulle testimonianze materiali sia strutturali che decorative. 
In seguito nel 2003, sotto l’impulso del Presidente della Scuola Edile di Perugia, si dette inizio ad una approfondita ricerca documentaria e  archivistica che unita ad alcuni saggi interpretativi relativi a complesso monumentale furono pubblicati nel volume “PIEVE DEL VESCOVO, Una residenza fortificata nel territorio di Perugia” (Edilprom 2003). 
Oggi, a distanza di un decennio, ulteriori indizi sono emersi che vanno ad arricchire la nostra conoscenza e vogliamo esplicitarli affinché offrano spazio a temi di approfondimento che, come vedremo, si presentano numerosi.
Ecco il perché degli appunti: molti saranno i punti di domanda e questi saranno legati in particolare alla personalità dei vescovi che hanno scelto la Pieve come luogo di soggiorno. I vescovi di cui tratteremo, in ordine cronologico sono: 
Andrea Bontempi (1354-1390); 
Andrea Giovanni Baglioni (1435-1449); 
Giacomo Vannucci (1457-1487); 
Juan Lopez (1492-1501);
Fulvio della Corgna (1550–1553)

Nel testo che segue non si evidenzieranno note . . . 

Dalle origini al 1390 

Andrea Bontempi,
Vescovo di Perugia dal 1354 al 1390.
Nato a Perugia nel 1326, addottorato in diritto canonico nello Studio di Perugia, è consacrato vescovo di Perugia dal papa Innocenzo VI con bolla del 4 maggio 1354 concedendo allo stesso la dispensa dall’età minima. Aveva infatti appena ventotto anni. 
Siamo nel periodo della cosiddetta cattività Avignonese. A Innocenzo VI, che aveva incaricato il Cardinale Egidio Albornoz di restaurare l’autorità papale nei territori della chiesa (Romagna, Marche, Umbria e Lazio) occupati e gestiti in autonomia da diversi signori locali, succede Urbano V il quale, nel Luglio del 1369, lanciò l’interdetto sulla città di Perugia ordinando allo stesso tempo al Bontempi di abbandonare la città con tutto il clero e gli ordini religiosi.
Lo stesso Urbano V nominò come suo vicario a Perugia Gérard du Puy (detto Monmaggiore o peggio, nequissimo nerone), il quale fece costruire dal Gattapone due fortezze, una a Porta Sole, l’altra a Porta S. Antonio
Il vescovo Bontempi, in seguito proponendo ai magistrati perugini di trattare con il papa la fine della guerra, ne ottiene l’autorizzazione a raggiungerlo a Roma. La sua mediazione fu ampiamente apprezzata ottenendo per sé il titolo di Cardinale e per il popolo perugino la stipula degli accordi di pace e proprio al popolo il pontefice Urbano VI si rimette, fidando nella loro buona volontà (1° nov. 1370). Urbano VI, ratifica il trattato di pace nei primi giorni del 1379 e subito dopo delega al Bontempi il potere di assolvere formalmente la città di Perugia dall'interdetto e i cittadini dalla scomunica.
E’ in questi anni che l’Albornoz, con l’aiuto dell’architetto eugubino Matteo Gattapone, aveva avviato un progetto  di costruzione ovvero ristrutturazione di fortificazioni per esercitare un miglior controllo dei territori della chiesa con presidi militari. Non ne abbiamo la certezza ma sembrerebbe ovvio che l’edificazione del castello nel luogo della Plebs Sancti Johannis appartenesse a questo preciso programma essendo un punto di snodo strategico verso i territori della toscana.
Lo schema rettangolare i cui vertici sono segnati da alte torri nella Rocca di Spoleto sembra qui replicato, inglobando la più antica struttura delle pieve. E se la costruzione della Rocca di Spoleto avviene a partire dal 1359, mentre il completamento è del 1370 potremmo ipotizzare che il castello della Pieve è stato edificato a partire dal 1379, data della ratifica del trattato di pace, e portato a termine intorno al 1390. Infatti ciò è attestato da un documento, redatto dai priori di Perugia in data 26 ottobre 1390, in cui si nomina ser Pucciero “Retulani” castellano della struttura.
Sembrerebbe che sia il Bontempi il primo vescovo ad utilizzare l’antica struttura plebana come soggiorno estivo e dobbiamo presumere proprio nell’intervallo temporale che va dal suo ritorno da Roma  alla data della sua morte.
Assumeremo proprio questa data, 1390, che corrisponde ad una struttura  architettonica ancor oggi perfettamente leggibile e quasi integra, come elemento di riferimento per cercare di capire cosa c’era prima del castello.

Se esaminiamo la pianta del castello riscontriamo una irregolarità nell’orientamento delle strutture murarie che definiscono il castello rispetto a quelle dell’interno, queste ultime evidenziate in rosso (fig. 1). Dunque nella definizione della pianta del castello qualche cosa della primitiva plebs deve essere stata recuperata.

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fig. 1
Si tratta principalmente:
del perimetro murario A-B-C;
del portale d’ingresso I;
del pozzo P

A questi elementi occorre aggiungerne altri due assolutamente ipotetici. Il primo riguarda due allineamenti murari segnati con la lettera “m”, il secondo riguarda il prospetto della chiesa che, nella posizione attuale, concorde con l’orientamento delle mura del castello non ci fornisce elementi certi riguardanti la sua posizione originaria. La natura delle pietre che ne costituiscono il portale d’ingresso  (fig. 2) e parte del paramento adiacente aggiungono ulteriori dubbi. Tuttavia potrebbe essere stato proprio l’orientamento della chiesa ed il recupero dell’originario prospetto a determinare il tracciamento del perimetro del castello come si evince dal disegno planimetrico.

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fig. 2
In primo luogo esaminiamo il prospetto B-C. 
Non siamo certi rispetto al numero dei piani del palazzo vescovile a quel tempo, propendiamo per due in riferimento al cortile interno. Piano terra e piano nobile. Forse vi era anche un piano seminterrato . La visione di questo prospetto è oggi falsata dalle ristrutturazioni avvenute nei secoli successivi (fig. 3).

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fig. 3
Avviate una serie di indagini per comprendere come operare, nella prospettiva di un restauro di questo cortile interno, è venuta alla luce una decorazione (fig. 4)  che sembra si estendesse all’intera superficie del prospetto. Ma un’altra particolarità la rende ancora più interessante in quanto la decorazione risulta del tutto identica a quella esistente nell’ex dormitorio del Palazzo dei Priori a Perugia realizzato intorno all’anno 1322  e con qualche variazione del tutto irrilevante nella “stanza della badessa”  nel monastero di S. Giuliana sempre a Perugia .
Che la decorazione si estendesse verso sinistra è evidente, ma che fosse estesa probabilmente al’intera facciata lo si vede dall’emergere velato del rosso  dei gigli e delle rose (fig. 5).

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fig. 4

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fig. 5
Si può dunque trarre una prima conclusione, ovverosia che all’interno dell’antica Plebs Sancti Johannis infra montis  esisteva tra i pochi edifici uno di particolare rilevanza che doveva essere mantenuto e che questo, oltre a testimoniare e giustificare un piccolo nucleo abitativo in prossimità, citato come Villa Plebis infra muntes, corrispondesse alla residenza estiva del Vescovo. 
La datazione della decorazione fissata al 1322, sia pure in modo approssimativo, è abbondantemente precedente al periodo in cui il Vescovo Andrea Bontempi ne ricoprì la carica (1354 – 1390) . 
Un esempio simile di nuova edificazione su preesistenze lo troviamo nella pianta della Castellina di Norcia, dove nella regolarità del nuovo impianto del Palazzo fortificato si conservano le vecchie strutture del Palazzo del Capitano del Popolo (fig. 6 - da inserire).

Altro elemento di similitudine lo troviamo nella  Pieve S. Quirico, per quanto a nostra conoscenza, tutt’ora abbastanza integro per dare un’idea di come doveva essere in antico. Gli elementi corrispondono anche se diversamente distribuiti. Il palazzo a tre piani di cui uno seminterrato, comunque munito di feritoie di difesa, e accesso all’esterno dov’è ubicato il pozzo; le stalle e il forno; la corte e la chiesa, a cui si può accedere dall’esterno, che chiude la cinta fortificata con accanto alla porta d’ingresso, ne rimangono soltanto tracce, una torre di difesa in seguito innalzata e trasformata in campanile (fig. 7 - da inserire). 
Ora esaminiamo il portale d’ingresso
Esso si trova oggi all’interno della struttura del castello, ma è evidente che costituisse l’ingresso principale di una più antica residenza fortificata: la plebs Sancti Johannis. 
La quota d’imposta del portale corrisponde al livello del cortile interno e l’eventuale scalinata che precedeva l’ingresso ovvero la conformazione naturale del terreno è stata modificata riportando il raccordo dei due livelli all’interno (fig. 8).

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fig. 8
A questo punto dobbiamo esaminare un altro elemento molto particolare. Parliamo del pozzo. Non si ha notizia alcuna in merito alla sua realizzazione. Nella speranza che nel tempo si possa trovare una qualche documentazione attendibile dobbiamo fare alcune ipotesi.

La plebs Sancti Iohannis inter montes e la villa plebis infra muntes sono così citate rispettivamente in atti rispettivamente del 1029 (atto di donazione da parte di Ugo di Alberico all’Abbazia di Farfa) e del 1258, quando il sindaco della piccola comunità, Guglielmo “donne Beneaudite” giura di esercitare la carica davanti al  podestà. Da ciò si deduce che la comunità, anche se rivestisse una natura semplicemente servile in funzione della Pieve, dovesse essere dotata di un pozzo. Quale pozzo? Quello esistente attualmente all’interno del primo cortile? Se così fosse si spiegherebbero facilmente le modalità di innesto della nuova struttura del castello a pianta quadrangolare, che doveva tener conto sia del palazzo vescovile, sia del pozzo,  portandolo all’interno, e dell’orientamento est-ovest  della pianta quadrilatera della struttura fortificata.
Il castello è connotato dalle quattro torri ai vertici del quadrilatero, dal portale di accesso a ovest adiacente alla torre angolare, dall’uscita segreta disposta in posizione antisimmetrica rispetto all’ingresso principale, dal trabocchetto, un artificio diabolico che si serve del pozzo come mezzo per liberarsi dal nemico che insegue. Al trabocchetto si accede esattamente qualche metro sotto il livello del  primo cortile e proprio in corrispondenza dell’ingresso della Chiesa. Quindi la vera del pozzo in origine poteva essere ad un livello diverso dall’attuale in rapporto all’utilità della sua acqua per la villa plebis e la plebs Sancti Johannis ovvero per la specialità della sua acqua, che in periodo più antico si riferiva forse ad un culto pagano, sostituito con l’avvento del cristianesimo dal culto di S. Giovanni Battista. Un esempio noto è la chiesa di S. Giovanni Batttista a Marsala, costruita sopra l’antro della Sibilla Lilibetana. 

Forse l’acqua dunque, oppure il fuoco, simbolo del sole –“le fiamme disegnano nell’aria la scia di promesse d’amore e di fortuna”- facevano di questo luogo il punto di raccolta naturale del contado.
Il più basso dei colli è stato all’inizio soltanto paesaggio sacro, poi luogo prescelto per un piccolo santuario ed infine Pieve. 

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Graffito nascosto











mercoledì 17 dicembre 2014

Biriwa (Ghana, Central Region)


Paesaggio - 3

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E lalba, un piccolo villaggio di pescatori si nasconde tra le palme e così anche parte delle barche, trascinate sulla sabbia la sera. Durante il giorno serviranno ai vecchi pescatori come laboratorio per revisionare le reti e cucirne gli strappi, riparandosi dal sole con tende variamente colorate, che il vento accarezza insieme alle bandiere.



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Le altre barche riposano al largo, al di là delle onde che si rifrangono sugli scogli.
Sono a Biriwa, nella regione centrale del Ghana. Nella mia prima passeggiata mattutina mi dirigo verso Forte William, volevo e speravo di raggiungerlo camminando lungo la costa, ma avrei dovuto attraversare il villaggio. La sola idea di farlo mi blocca e poi a quellora quando ognuno provvede alle pulizie personali, ai propri bisogni. Mi è capitato di sorprendere qualcuno dietro uno scoglio intento a scavare una buca nella sabbia. Si perché è così che si fa, lungo la battigia. La buca non va coperta per facilitare lazione depuratrice del mare, ma anche perché possa essere evitata da altri.
Comunque questo non è il solo motivo del mio blocco, non lavrei attraversato a qualsiasi ora del giorno .
Ho ricordato due definizioni di paesaggio:


Per lo vano di una finestra, e per qualunque altra apertura di lor capriccio, mostrare una lontananza di paesaggio in isfuggita…”


Aspetto del paese, campagna con monti,fiumi alberi, ecc.

domenica 2 novembre 2014

Mozia - (Marsala)

Paesaggio - 2

fev

In un amplesso di marine e cieli
di miti di leggende e di colori,
un'amaca s'intreccia all'orizzonte
e culla il sole.

Mollemente la bruma scende e avvela
i ruderi, le spiagge e le saline
lenta tra i pini coi mulini sfuma
Motya fenicia.

Giovanni Angileri